“Giustizia? Stanno rottamando pure i diritti”. Giancarlo De Cataldo contro le riforme

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Da L’espresso 12 marzo 2015

di Giancarlo De Cataldo, da L’Espresso

A un cittadino che è intervenuto sul blog di un noto quotidiano, la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati sta bene perché «non voglio più vedere un processo come quello di Meredith». Il riferimento è all’omicidio di Meredith Kercher, vicenda per la quale gli imputati sono stati prima condannati, poi assolti, poi nuovamente condannati dopo annullamento della Cassazione. Il cittadino esprime il suo sdegno per decisioni contrastanti, ed è sicuro che con la nuova legge tutto questo non accadrà più.

A tanto sdegno si potrebbe ovviare, in chiave di stretta logica, con due soluzioni fra loro alternative:

a) vietare la custodia cautelare;
b) condannare sempre e comunque chiunque sia arrestato.

Conseguenze paradossali, e contrarie al più elementare buon senso: i delinquenti pericolosi vanno fermati e gli innocenti assolti. È ovvio che tutto questo non ha niente a che vedere con la responsabilità dei magistrati. La giustizia è fatta di ricorsi, appelli, corti supreme e decisioni fisiologicamente contrastanti fra loro. L’appello e la Cassazione servono proprio a questo: a rimediare a potenziali errori di giudizio. È chiaro, allora, che il cittadino di cui sopra non ha la benché minima idea di ciò di cui sta parlando.

Il diritto è un campo vasto, complesso, contraddittorio, talora così sofisticato da sfidare la razionalità. Se il cittadino è incolpevole, non altrettanto può dirsi di quanti, disponendo degli adeguati strumenti tecnici, sono intervenuti, nel tempo, con dichiarazioni tendenziose, strumentali, menzognere. Si è detto: finalmente una legge sulla responsabilità civile.

Eppure, ne esisteva già una, e sin dal 1987. Si è detto: da oggi il giudice che sbaglia paga, come tutti gli altri cittadini. Eppure, come già accadeva, a pagare è in prima battuta lo Stato, e contro il magistrato si opera una rivalsa che già era prevista. Le uniche novità sul punto sono due: aumenta l’entità del risarcimento e lo Stato è obbligato ad agire contro il magistrato.

Si è detto: ce lo impone l’Europa. Eppure, l’Europa si era limitata a chiedere l’estensione del diritto al risarcimento alle violazioni della legge europea. Il legislatore italiano è andato ben oltre, e alle classiche ipotesi di dolo e colpa grave (il giudice corrotto, quello incapace, distratto, superficiale, negligente) ha aggiunto una responsabilità per “travisamento del fatto e della prova”. Chiunque mastichi della materia (e in Parlamento avvocati, giudici e laureati in legge non mancano) sa che “travisamento del fatto e della prova” è il classico motivo di ricorso che punta a invalidare la tenuta logica di una decisione controversa.

Una petizione che suona come “hai letto male la catena logica degli atti, rileggi e dammi ragione”. Cioè: cambia la decisione precedente. Giusto ciò che accade, quotidianamente, nella fisiologia della giustizia: i giudici interpretano la legge, ed è logico che pervengano a decisioni difformi. L’interpretazione è da sempre il nodo più controverso dell’attività giudiziaria. Se le leggi fossero chiare, si sente ripetere, non ci sarebbe bisogno di interpretarle. I giudici si limiterebbero ad “applicarle”. Sta di fatto che nei secoli alcuni provarono a bloccare l’interpretazione, dall’imperatore Adriano con l’Editto Perpetuo ai rivoluzionari giacobini, per i quali il giudice doveva essere “bocca della legge”. Bocca, e non cervello. Gli esiti furono catastrofici. Il diritto non può essere cristallizzato in formule: vive di interpretazione.

Ma le autentiche vittime, purtroppo, non saranno i meno di diecimila magistrati italiani, i quali, dal loro canto, hanno reagito con amarezza, lamentando una legge punitiva nei loro confronti. Per quanto l’uomo della strada, il cittadino twittatore, possa non rendersene conto, a pagare il prezzo più alto sarà proprio lui.

Da un lato, è prevedibile che le sentenze si orienteranno in chiave difensiva, attestandosi sulla difesa dell’esistente, ultimo baluardo di giudici intimiditi e gravati da un’organizzazione dei servizi strutturalmente deficitaria. Un po’ come accade per i medici, terrorizzati dalle azioni risarcitorie: ti prescrivo un mare di analisi perché “non si sa mai”. A farne le spese, in ultima analisi, la sanità pubblica. Dall’altro, la legge sulla responsabilità non va letta come un fatto isolato, ma è destinata a “fare sistema” con una serie di altre innovazioni.

Il Jobs Act, per esempio, che ridisegna la disciplina dei rapporti di lavoro di fatto ridimensionando il ruolo dei giudici. Giudici estromessi dal controllo sui licenziamenti disciplinari, possibili quando il datore di lavoro provi un fatto materiale ancorché incolpevole: sei arrivato in ritardo perché il tram ha avuto un incidente? Sei fuori. In cambio, qualche mensilità e l’alternativa di una causa lunga, con il giudice relegato al ruolo di comparsa.

I fautori del nuovo accusano i loro detrattori di avere qualche problema con la modernità. Che le poderose riforme messe in campo faranno ripartire l’economia e cambieranno l’Italia. Ah, che ci siano profondi cambiamenti è indubbio. Ma di che segno? La nostra Costituzione insegna che padrone e lavoratore non sono uguali. Il contratto fra loro non è un libero incontro di volontà, perché non c’è libertà vera dove il potere sta da una sola parte. Da qui tutele rafforzate, da qui lo Statuto dei Lavoratori, ferrovecchio rottamato, da qui il processo speciale del lavoro. Per capire cos’era un ambiente di lavoro prima dello Statuto, quando i giudici non mettevano il becco e i sindacati erano sostanzialmente fuorilegge, si potrà leggere “Storia di chi fugge e di chi resta” di Elena Ferrante. Segnatamente, nella parte in cui il padrone di un salumificio esercita lo jus primae noctis sulle giovani operaie. Che non osano ribellarsi perché l’alternativa è una e una sola: disoccupazione, fame.

E per capire che cosa significhi un sistema che si regge su giudici conniventi o intimiditi, assenza del sindacato, strapotere dell’imprenditoria, si potrà leggere l’ultimo, devastante romanzo di John Grisham, “I segreti di Gray Mountain”. A Grey Mountain, laggiù nell’America profonda, per estrarre il carbone usano una tecnica particolare. Si chiama strip mining e consiste nello scotennare la montagna per portare alla luce le vene carbonifere: deturpa il territorio e fa morire la gente di una terribile malattia nota come “polmone nero”.

Ma la questione non interessa Big Coal, il potente cartello dei produttori. Big Coal compera i terreni da piccoli proprietari felicissimi di vendere, perché altrimenti ne ricaverebbero solo guai e nessun utile. I minatori malati sono licenziati con liquidazioni irrisorie e se vanno in Tribunale per chiedere i danni, vengono impietosamente bastonati da corti composte da giudici nominati dal potere politico ovvero eletti. E siccome le elezioni si vincono con le campagne elettorali, che costano, quei giudici sono, di fatto, impiegati di Big Coal. Quanto ai sindacati, riflette amaramente uno dei personaggi del romanzo, un vecchio minatore morente, «li hanno fatti fuori vent’anni fa, e da allora nessuno più ci difende». Ecco il sistema: il top della modernità.

D’altronde, secondo la Banca Mondiale, la giustizia che funziona è, né più né meno, quella che dà rapidamente ragione all’impresa: quanto al resto, è un optional. Democrazia compresa.

(12 marzo 2015)

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